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lunedì 28 ottobre 2013

Cattivissimo me, cattivissima recensione

CATTIVISSIMO ME 2
(Despicable me 2)
di Pierre Coffin e Chris Renaud,
USA, 2013
Se ti piace guarda anche:  Hotel TransylvaniaShrek 2 e 3, L'era glaciale 2 e 3
TRAMA
Gru, ex cattivo ora padre affettuoso dedito alla produzione di marmellose, viene ingaggiato per una missione da cui dipende la salvezza del mondo. Inizialmente riluttante, finisce per accettare l'incarico..
RECENSIONE
Quarto film d'animazione della Illumination Entertainment (Universal), definitivamente consacrata come alternativa alla Pixar e alla Dreamworks, sequel del primo film della casa di produzione, uscito nel 2010, questo titolo sembra esser fatto solo per divertire, senza aspirare ad alcuna ambizione artistica.
La storia poggia su una trama che accumula gag non-sense senza suscitare alcuna sorpresa, meraviglia o divertimento.
Rivolto soprattutto ai più piccoli, ai quali è riservato il messaggio edificante pro-famiglia e l'umorismo facile, il film ha trovato il suo pubblico, e qui è la sorpresa, soprattutto tra i giovani, incassando cifre record in ogni parte del pianeta: 370 milioni negli States e oltre 10 in Italia in sole due settimane.
Del resto tali esiti erano prevedibili se si considera il successo del capito precedente, meno comprensibili sono invece le recensioni che lo descrivono come un un film divertentissimo.
Perché nelle due ore di proiezione (francamente troppe) la noia è tanta e le risate poche, pochissime. E un film che doveva rappresentare un semplice, innocuo passatempo diventa motivo di amarezza e sconforto. Nella mia sala, infatti, la più grande del cinema e ovviamente gremita,  occupata da un pubblico di età compresa tra i 20 e 40 anni, si rideva a crepapelle a ogni pernacchia, linguaccia, scoreggia o travestimento dei Minion, i simpatici pupazzetti gialli che si sono trasformati in vere e proprie mascotte-simbolo del film, un po' come lo scoiattolo de L'era glaciale.
Un umorismo dunque tornato al suo stato primordiale, che dovrebbe divertire solo i bambini e invece a sorpresa conquista i giovani adulti. O ancora, un umorismo da cinepanettone solitamente tanto vituperato dai critici.
Io non voglio dire che tutti debbano ridere alle battute colte di Woody Allen, ma vedere così tanti giovani che si sbellicano dalle risate per una pernacchia e per un travestimento mi fa capire perché questi giovani non troveranno lavoro nonostante la laurea e mi fa inoltre pensare a quanto possa essere proficuo il futuro dei comici e del cabarettisti se basta così poco per divertire le masse. 
VOTO: 5

venerdì 25 ottobre 2013

un altro film che parla di MILF

TWO MOTHERS
di Anne Fontaine,
Francia, Australia, 2013
con Naomi Watts, Robin Wright, Xavier Samuel, James Frecheville, Ben Mendelson
TRAMA
Due donne, da sempre migliori amiche, iniziano una relazione ognuna con il figlio dell'altra..
RECENSIONE
Per la sua prima opera internazionale la regista francese Anne Fontaine si affida a un romanzo breve del Premio Nobel Dora Lessing, di cui non riporto il titolo per non svelare la fine della storia.
Scegliendo le esotiche spiagge dell'Australia e due star hollywoodiane come Naomi Watts e Robin Wright la regista compie due scelte riuscite, ma risulta poco convincente nella descrizione dei personaggi, soprattutto quelli maschili.
I fatti, che tra l’altro coprono diversi anni senza che nessuno dei protagonisti cambi nemmeno pettinatura, sono presentati in modo piuttosto inverosimile, a partire dal primo cruciale approccio tra una delle donne e il figlio dell’amica. Per non parlare poi del fatto che questi due ragazzi passino le serate a casa a sbronzarsi con le proprie madri.
Senza troppe spiegazioni, e in modo programmatico, gli eventi si accumulano e i personaggi accettano più o meno di buon grado ciò che accade, senza mai ribellarsi o alzare la voce.
E se numerosi passaggi suscitano qualche perplessità è comunque apprezzabile il tono delicato del film, che a differenza di quanto si possa lecitamente attendere, evita scene madri e momenti pruriginosi, mostrando la storia con garbo e delicatezza. La delicatezza è tanta insomma che alla fine si rischia di rimanere in superficie, ma dopotutto questo pare essere l’intento della regista che preferisce concentrarsi su volti e paesaggi incontaminati e condire il film di dialoghi vacui.
Brave, belle e coraggiose Naomi Watts e Robin Wright, probabilmente le uniche attrici hollywoodiane ultraquarantenni a non aver ancora incontrato le deturpanti lame del bisturi. Al loro fianco Xavier Samuel e James Frecheville, semplici soprammobili, definiti “belli come dei” da una delle due protagoniste e in quanto tali statuari, nel fisico e nella recitazione. Il film è uscito con diversi titoli nel resto del mondo, tutti francamente incomprensibili: Adore, Perfect Mothers,..tutt'altro effetto avrebbe fato "MILF", titolo perfetto e per nulla fuorviante e oserei dire per nulla volgare in questo contesto..
VOTO: 6  

mercoledì 23 ottobre 2013

Catherine Deneuve

Catherine Deneuve

Il 22 ottobre del 1943 nasceva a Parigi Catherine Fabienne Dorléac, destinata a diventare l’attrice francese più famosa di tutti i tempi e anche l’unica al mondo a riuscire ad attraversare  cinque decenni di cinema lasciando un’impronta in ognuno.
Catherine Deneuve è stata infatti nel ‘67 Bella di giorno per Luis Buñuel, nel 1970 Pelle d’asino per Jacques Demy, nel 1980 è protagonista di L’ultimo metro per François Truffaut, nel ’92 è nominata all’Oscar per Indocina, nel 2001 è nel cast del film vincitore della Palma d’oro, Dancer in the Dark di Lars Von Trier e nel 2010 è protagonista di Potiche-La bella statuina di François Ozon.
Una carriera straordinaria, unica, che col passare del tempo ha confermato un grande talento e un intuito sorprendente nel trovare ruoli adatti.
E di fronte ad attrici che col tempo faticano a trovare ruoli adeguati, Catherine nell’ultimo decennio ha collezionato un numero impressionante di ruoli bellissimi, rimanendo un’icona del cinema francese di qualità.

Perché in fondo, se il suo nome è noto a tutti, lo stesso non si può dire dei suoi film, fondamentali per cinefili, sconosciuti al grande pubblico che per la prima volta l’ha vista in un blockbuster l’anno scorso in Asterix e Obelix al servizio di sua Maestà.
Ma ripercorriamo ora i titoli più famosi di una carriera straordinaria.

1964: Les Parapluies de Cherbourg di Jacques Demy
1965: Repulsion di Roman Polanski 
1967: Bella di giorno Luis Buñuel 


1970: Tristana di Luis Buñuel
1980: L’ultimo metro di François Truffaut
1985: Speriamo che sia femmina di Mario Monicelli
2001: Dancer in the Dark di Lars Von Trier
2001: 8 donne e un mistero di François Ozon
2010: Potiche di François Ozon

sabato 19 ottobre 2013

Anni felici

ANNI FELICI
di Daniele Luchetti,
Italia, 2013
con Micaela Ramazzotti, Kim Rossi Stuart
Se ti piace guarda anche: La prima cosa bella, La nostra vita 
TRAMA
Roma, 1974. Un artista di avanguardia tradisce con disinvoltura la moglie, casalinga con due figli, finché un giorno quest'ultima non decide di partire per un viaggio in Francia che cambierà per sempre la vita di entrambi. I due figli diventano così testimoni delle burrascose vicende sentimentali dei due genitori.
RECENSIONE
L’avanguardia artistica, l’omosessualità femminile di una moglie, il femminismo, i bambini che osservano i genitori mentre si esibiscono nudi o mentre parlano di tradimenti: tutti argomenti forti, che accogliamo volentieri all’interno di un film che racconta tutto ciò con grande naturalezza e si distingue così dalla solita storia familiare all’italiana.
Peccato che il regista sia incapace di raccontare in modo originale o anche semplicemente coinvolgente temi, situazioni e ambienti che avrebbero potuto e dovuto rendere il film decisamente più significativo. Invece, proprio come il protagonista maschile, si finisce per essere convenzionali pur volendo essere disperatamente anticonformisti. La visione quindi risulta poco convincente come lo sono le vicissitudini di personaggi non del tutto riusciti e non aiutano nemmeno i loro interpreti, ovvero i solitamente bravii Kim Rossi Stuart e Micaela Ramazzotti.
Quest'ultima riprende il ruolo de La prima cosa bella e ritrova il partner di Questione di cuore, ma questa volta il suo personaggio, sulla carta bellissimo, non lascia il segno. Stesso discorso per un Kim Rossi Stuart affettato che non riesce a riscattare il proprio personaggio.
Dopo l’affresco storico-politico del premiato Mio fratello è figlio unico e quello d’attualità di La nostra vita che valse la Palma a Elio Germano, Lucchetti firma una storia familiare troppo convenzionale, priva di tocchi autoriali o prove d’attori degne di nota.
VOTO: 5,5

lunedì 14 ottobre 2013

Gravity, un grandissimo spettacolo sensoriale

GRAVITY
USA, 2013
di Alfonso Cuaron
con Sandra Bullock e George Clooney
Genere: Fantascienza
Se ti piace guarda anche: 2001 Odissea nello spazio, Moon, Solaris, Duel

RECENSIONE
Per la Dottoressa Stone si tratta della prima spedizione spaziale, mentre l'astronauta Kowalsky è alla sua ultima missione prima del pensionamento. Una pioggia di detriti derivati dall'esplosione di un satellite li colpirà in pieno portano a tragiche conseguenze..
TRAMA
Alfonso Cuarón firma un blockbuster d'autore, spettacolare e allo stesso tempo di grande qualità, soprattutto dal punto di vista tecnico. 
Il film infatti ci trascina nello spazio e rende palpabile l'assenza di gravità che caratterizza il film grazie a effetti speciali stupefacenti e un 3D finalmente necessario. Ottima e funzionale anche la colonna sonora di Steven Price, che contribuisce al mantenimento della tensione.
Al montaggio c'è ancora Cuaron, mentre la straordinaria fotografia è di Emmanuel Lubezki, oramai una garanzia (To the wonder, The three o life di Malick).


L'unica pecca del film è la sceneggiatura, scritto dallo stesso Cuaron col fratello Jonas, molto debitrice del cinema hollywoodiano più convenzionale. Ma Gravity dopotutto è anche un blockbuster e deve sottostare a rigide regole almeno a livello narrativo. La trama in sé infatti non presenta nulla di particolarmente originale e ripropone la storia di un personaggio normale che di fronte a situazioni straordinarie si trasforma in eroe. Alcuni passaggi che riguardano l'approfondimento del personaggio principale (che diventa anche l'unico nella maggior parte della pellicola, e questo è già meno convenzionale) appaiono infatti retorici e fanno perdere al film qualche punto, soprattutto nel finale che gioca un po' troppo con lo spettatore.
Ma il film ha un altro personaggio importante: lo spazio. Infinito, pericoloso, misterioso eppure meraviglioso. E il tocco autoriale di Cuaron, regista, sceneggiatore e montatore è quello di aver voluto portare sullo schermo, con le ingenti somme che Hollywood gli ha concesso, una sfida personale la cui forza risiede tutto nell'aspetto tecnico.
Ma non si tratta di forma senza sostanza poiché la forma è talmente eccelsa da diventare essa stessa sostanza in grado di emozionare, coinvolgere e stupire.
Il film va visto infatti in quanto esperienza sensoriale, non solo visiva grazie a un 3D che letteralmente ci immerge nello spazio e crea l'illusione di farci fluttuare. Un cinema che ci lascia a fiato e corpo sospeso, una magnifica illusione che conferma e rinnova ancora una volta la vocazione del cinema.
Applausi anche a Sandra Bullock, mattatrice assoluta di una pellicola che pone la sua solitudine e fragilità a confronto con l'immensità dello spazio.
VOTO: 8,5

venerdì 4 ottobre 2013

Quant'è glamorous rubare!

BLING RING
di Sofia Coppola,
USA, Francia, Giappone Uk, Germania
con Isreale Broussard, Emma Watson, Katie Chang, Taissa Farmiga, Claire Alis Julien, Georgia Rock, Dave Rossdale.
Se ti piace guarda anche: Somewhere, Marie-Antoinette, Il giardino delle vergini suicide, Spring Breakers
TRAMA
Un gruppo di ragazzini benestanti di Los Angeles riesce a intrufolarsi senza alcuna fatica nelle ville di alcune celebrities.

RECENSIONE
Sofia Coppola, al suo quinto film in diciassette anni prova a cambiar rotta: non vuole più identificarsi con la storia che racconta, non vuole tentare di spiegare, non vuole essere estetizzante e non vuole essere malinconica.
Gli intenti sono lodevoli, ma lo stesso non si può dire dei risultati.
Bling ring è infatti un film molto ambiguo, addirittura più di Somewhere, che spaccò la critica. Bling ring vuole mostrare la vacuità della ricca gioventù americana: quella che vive in sontuose ville dei sobborghi residenziali sempre soleggiati a due passi dalle star di cui noi europei leggiamo su giornali e siti di gossip, quella che segue improbabili discipline pseudoreligiose (The Secret, in questo caso). Una gioventù quindi lontana dalla nostra, della quale, ciononostante, condivide ossessioni diventate abitudini globalizzate e di fatto accettate: quelle per la condivisione su social network, per le grandi firme, per lo sballo. 
Una gioventù completamente allo sfascio che rappresenta però quella parte di società fortunata, l'unica con le possibilità economiche per farcela, per lasciare il segno.  Eppure è una gioventù che si perde, si auto-annienta. Il problema? I soldi non comprano l'intelligenza. Questi giovani sono stupidi quanto gli idoli che seguono: ricchi, ricchissimi, ma talmente idioti da mettere le chiavi di casa sotto lo zerbino. Nei poster delle camerette di questi giovani non vi sono artisti o sportivi, ma gente che è famosa perché guida in stato d'ebbrezza, perché esce di casa senza mutande o perché è continuamente in rehab. 
Insomma nessuno di questi giovani potrà lasciare il segno perché troppo presi dalle loro futili ossessioni. Poi, naturalmente, tra di loro ci sarà qualcuno più cattivo, furbo e ipocrita che tenterà la strada della politica (fantastica intervista al personaggio di Emma Watson): in tal caso lascerà il segno, ma si tratterà di un pessimo servizio alla società e dell'ennesimo politico dannoso e corrotto .
Sofia Coppola si adatta a questo mondo, usando perfino uno stile molto  simile ai docu-reality, e a tutta quella robaccia che passa su Mtv & co: dalle fotografie dei rotocalchi, alle interviste, alle immagini sempre ben illuminate e nitide. Esercizio interessante, ma si perde così il tocco estetizzante che rendeva i suoi film uno spettacolo anche per gli occhi. Pure la musica si plasma al soggetto: pezzi per lo più hip-hop, ripetitivi e rumorosi che fanno molto Mtv ed evocano poche suggestioni. Sono lontane dunque le bellissime colonne sonore dei film precedenti della regista.
Altro aspetto non meno importante sono le interpretazioni, che sembrano riprendere lo stesso stile televisivo: a metà tra la non recitazione e la recitazione forzata (i due poli opposti sono il ragazzo di Israel Broussard, che sembra sbucare da un documentario, e dall'altra la perfida ipocrita di Emma Watson, così visibilmente artefatta come la maggior parte delle protagoniste dei vari The Hills, Jersey Shore, ecc).

Altra questione: il giudizio o l'assenza di esso. Per la prima volta la regista mostra senza intervenire: non vi è empatia coi propri personaggi, non vi sono giovani incapaci di maturare e vivere la propria vita a causa di una società opprimente. 
Se le protagoniste del suo film d'esordio si suicidavano perché asfissiate da una famiglia opprimente, qui le ragazzine si danno ai furti perché lasciate troppo libere da famiglie troppo permissive o sceme (è l'unico modo con cui si può descrivere la famiglia delle due non-sorelle Nicky e Sam). La colpa è sempre delle famiglie, insomma, ma qui i figli si fanno colpevoli quanto i genitori, perché frutti di una società senza eroi che identifica i propri modelli  nelle Paris Hilton di turno.
Il film in qualche modo immortala questi modelli sbagliati ed effimeri, tra qualche anno già dimenticati (tale Audrina Partridge, al centro di un episodio del film, è già caduta nel dimenticatoio e sconosciuta ai più), perché dietro di loro non lasciano canzoni, film, libri, o gare ma solo milioni di articoli di gossip usa e getta.

L'autrice per la prima volta non si identifica con la propria materia e ciò in qualche modo si vede perché il film rimane sempre (troppo) in superficie e si concentra solo sul dato più ripetitivo e visibile, ovvero il gadget di lusso e gli scatti delle foto.
Il film si fa così un'analisi spietata di una certa società e se tra qualche anno verrà ricordato sarà per la capacità di aver fotografato perfettamente un preciso contesto, cioè per il suo valore sociale e antropologico, ma non di certo per quello cinematografico.
VOTO: 6